Negli sport di resistenza, come la maratona, il triathlon o le specialità del fondo (corsa, nuoto, sci), le richieste poste ai sistemi cardio-polmonare, cardio-vascolare e muscolare sono elevate ed il protrarsi dello sforzo per un tempo generalmente lungo può portare i sistemi energetici dell’organismo al limite. Per rispondere a richieste come queste, gli atleti che praticano sport di resistenza devono sviluppare non solo specifiche capacità motorie, ma anche alcune abilità psicologiche che li possono aiutare ad affrontare, sia in allenamento che in gare, possibili stati di disagio fisico e mentale che in particolare queste discipline devono allo stress acuto o cronico, alla fatica prolungata, alla percezione di dolore (Bortoli, 2004; Trabucchi, 1999).
Gli atleti che praticano sport di resistenza sono chiamati a confrontarsi continuamente con i processi motivazionali perché queste discipline chiamano a confrontarsi con molteplici sfide e difficoltà: in questo senso, possono essere considerati gli atleti ideali per studiare non solo la motivazione ma anche la resilienza nello sport. Per resilienza, si intende la capacità di un individuo di resistere e di proseguire senza arrendersi fronteggiando con successo cambiamenti, eventi critici o difficoltà (Wagnild e Young, 1993). La resilienza è considerata sia una caratteristica personale che il risultato dell’interazione fra la persona e il suo contesto; quando è intesa come caratteristica personale, è spesso associata ad altre qualità come fiducia in sé e nelle proprie capacità, ottimismo, capacità di concentrazione, elevato livello di impegno, tolleranza alla frustrazione. Un aspetto significativo è che la resilienza viene considerata non come una caratteristica statica e stabile, ma piuttosto come il risultato di un processo di apprendimento e di sviluppo in funzione di esperienze realizzate. Nello sport, la resilienza viene vista come la capacità degli atleti di sostenere carichi di allenamento impegnativi, di affrontare lo stress della competizione, di gestire stati emozionali spiacevoli, ma anche di recuperare la forma in modo sicuro e soddisfacente dopo un infortunio (Vitali e Bortoli, 2013). Inoltre, alcune ricerche sullo sport mostrano come la resilienza intesa come caratteristica personale possa aiutare gli atleti a fronteggiare con successo le avversità (Gucciardi, Jackson, Coulter e Mallett, 2011), a gestire al meglio pressioni e fonti di stress e a conseguire prestazioni ottimali (Fletcher e Sarker, 2012). La resilienza rappresenta, dunque, un fattore che può incidere non solo sull’orientamento motivazionale degli atleti ma anche sulla prestazione sportiva.
Una teoria che ha ricevuto negli ultimi anni molteplici conferme e che è stata ampiamente usata per studiare i processi motivazionali nello sport anche di atleti che praticano sport di resistenza è quella dell’orientamento motivazionale (Achievement Goal Theory). Dal punto di vista individuale, questa teoria pone molta importanza sui criteri soggettivi usati dagli atleti per definire cosa siano successo e fallimento, come significato personale attribuito a tali concetti. Quando la valutazione della propria prestazione sportiva è basata su standard normativi, ossia sul confronto con gli altri atleti, l’atleta si sente competente e motivato se riesce a vincere, a superare gli altri oppure a fare come gli altri ma con meno sforzo: si determina quello che viene definito un orientamento motivazionale sull’io (ego orientation). Quando, invece, la valutazione della prestazione è autoriferita, la percezione di competenza si fonda su criteri di miglioramento personale e di apprendimento, e l’impegno viene considerato il fattore principale di successo: in questo caso, si determina un orientamento motivazionale sul compito (task orientation).
Un recente studio (Vitali e Ferrari, 2014) che ha coinvolto 170 atleti, uomini e donne, praticanti diverse discipline sportive di resistenza (maratona, mezza maratona, nuoto di fondo e sci di fondo), che avevano un’età media di circa quarant’anni ed un’esperienza sportiva elevata, ha mostrato come l’orientamento motivazionale sul compito diminuisse con l’aumentare dell’età e, contemporaneamente, come la resilienza fosse correlata in modo significativo sia con l’orientamento motivazionale sull’io che con l’orientamento motivazionale sul compito anche se, in questo ultimo caso, in modo molto più significativo. Questo risultato mostra che quando gli atleti valutano la propria prestazione in modo autoriferito e la loro percezione di competenza si fonda sul miglioramento personale, sull’apprendimento di nuove abilità e l’impegno è considerato il fattore principale di successo, allora questi stessi atleti si sentono anche più resilienti.
Un ampio filone di ricerca ha indagato anche le strategie attentive negli sport di resistenza, ovvero la direzione dei pensieri e dell’attenzione. Durante la prestazione l’attenzione può essere diretta verso aspetti associati al compito sportivo (ad esempio, pensieri associati al ritmo di corsa, alle sensazioni personali fisiche) o, viceversa, verso aspetti dissociati e non inerenti ad esso (ad esempio, pensieri diretti al panorama, sogni ad occhi aperti). Se i pensieri associativi sono in genere legati al monitoraggio delle sensazioni specifiche legate all’attività motoria, quelli dissociativi, usati in modo più o meno consapevole, possono agire come distrattori e possono essere utili per alleviare le sensazioni di fatica, dolore o noia. Le ricerche sulla relazione fra prestazione e strategie attentive (associative vs. dissociative) ha prodotti risultati abbastanza contrastanti. Da un lato, ci sono studi che hanno messo in evidenza come le strategie associative possano avere un effetto disfunzionale sulla prestazione legato all’aumento della percezione della fatica, altri studi invece hanno portato a risultati opposti, ed altri ancora non hanno trovato differenze sulla prestazione in base all’utilizzo di un diverso focus attentivo.
Una ricerca significativa è stata svolta da Shomer (1986) che ha messo in luce come maratoneti esperti e di successo fossero in grado di passare di frequente fra strategie associative e strategie dissociative e differenziassero le finalità per cui utilizzarle: le strategie associative erano usate per controllare il ritmo di corsa, mentre le strategie dissociative erano utili per lasciare fluire la prestazione in modo automatico. Trabucchi (1999) ha analizzato in modo critico questo studio e l’esemplificazione delle strategie usata da Shomer (1986), affermando come non sempre siano chiaramente identificati i contenuti delle strategie associative: queste possono riferirsi tanto alle sensazioni corporee, tanto al monitoraggio dell’andatura. Per questa ragione, ha proposto una distinzione più precisa fra questi due aspetti e, riferendosi ai pensieri associativi, suggerisce la distinzione fra strategia associativa, intesa come la focalizzazione sulle sensazioni interne connesse all’affaticamento (es. segnali corporei), e strategia ritmo focale, definita come la focalizzazione sui fattori interni ed esterni della prestazione legati al mantenimento dell’andatura ottimale (esempi di fattori esterni possono essere gli stimoli sonori o visivi, mentre quelli interni la fase di appoggio dei piedi o la pedalata). Mentre la strategia associativa viene ritenuta svantaggiosa perché rischia di amplificare i feedback negativi associati alla fatica, quella ritmofocale invece può dare il vantaggio di consentire un controllo dell’andatura senza innescare la percezione o l’amplificazione dei segnali corporei associati alla fatica.
La preparazione mentale legata ad un allenamento specifico e sistematico di abilità psicologiche può, dunque, essere fondamentale per un atleta che pratica sport di resistenza non solo per raggiungere lo scopo di migliorare la propria performance, ma anche di aumentare il divertimento e la possibilità di raggiungere una crescente soddisfazione per la propria attività sportiva. Un atleta può apprendere e acquisire in modo consapevole una serie di abilità e strategie utili ad affrontare sforzi sostenuti. Alcuni autori (Thelwell e Greenlees, 2003) suggeriscono di considerare almeno quattro abilità: la pianificazione di obiettivi (goal setting), utile per sostenere la motivazione, il miglioramento e l’apprendimento di nuove abilità anche fisiche e tecniche; la gestione dell’attivazione (arousal), ovvero della percezione dell’energia e della carica psicofisica di cui un atleta che pratica sport di resistenza può disporre e che deve essere gestita e dosata lungo l’arco degli allenamenti e delle gare; l’utilizzo di immagini (imagery) e del dialogo interno (self-talk) che possono servire rispettivamente ad utilizzare un’immagine, una situazione ed una parola o una breve frase con lo scopo di non pensare alla fatica o al dolore, correggere un eventuale errore, controllare l’attenzione, stimolare emozioni positive e incrementare la fiducia nelle proprie capacità.
Gli atleti di successo utilizzano quasi sempre abilità psicologiche in modo spontaneo, magari acquisite per prove ed errori lungo anni di esperienza sportiva, con il fine di controllare gli aspetti legati al miglioramento della prestazione e al piacere di praticare sport. È comunque riconosciuta la possibilità per gli atleti di apprendere o perfezionare alcune abilità psicologiche grazie a percorsi di consulenza e collaborazione con uno psicologo dello sport che può insegnare strategie specifiche e personalizzate per affrontare al meglio le sfide degli allenamenti e delle gare e vivere con soddisfazione crescente la propria attività sportiva.
Bibliografia