Editoriale

Migliorare performance: attenzione all'overtraining

Migliorare performance: attenzione all'overtraining

L’obiettivo di ogni atleta d’élite o amatore, è migliorare continuamente la propria performance sportiva. Per fare ciò è necessario un allenamento che sia in grado di fornire all’organismo lo stress necessario ad apportare le modifiche psico-fisiologiche e metaboliche necessarie a rendere l’atleta stesso sempre più prestante. Ma se gli stimoli che vengono forniti all’atleta non sono adatti, oltre al non ottenere l’obiettivo prefissato si può anche arrivare a provocare danni all’organismo stesso. Si possono creare situazioni di “overreaching” o “overtraining”.

È bene prima di tutto, fare chiarezza sulla terminologia corretta.  Nel 2013, le due società scientifiche più importanti per le scienze motorie e sportive, l’American College of Sports Medicine e European College of Sports Science, hanno pubblicato  un “consensus statement” in cui venivano fornite precise definizione ai termini sopra citati, per facilitare la comparazione degli studi scientifici  e per favorire la ricerca soprattutto negli aspetti preventivi.

Overreaching infatti indica un accumulo di stimoli, allenanti o non, che sfocia in un decremento a breve termine della capacità prestativa, con o senza segni o sintomi correlati, fisiologici o psicologici, di un cattivo adattamento, e il recupero della capacità prestativa può richiedere diversi giorni o settimane.  È una situazione ricercata da atleta o allenatore, perché porta a miglioramenti prestativi dopo un adeguato periodo di recupero.

Classici momenti di overreaching “funzionale” sono infatti i training camp, i periodi in altura, in cui non solamente si alzano i volumi e le intensità di lavoro ma si vive in un regime più controllato. Successivamente, si parla di overreaching non funzionale (NFOR),  che consiste in un accumulo di stimoli, allenanti o non, che sfocia in un decremento a lungo termine della capacità prestativa, con o senza segni o sintomi correlati, fisiologici o psicologici, di un cattivo adattamento, e il recupero della capacità prestativa può richiedere diverse settimane o mesi (Meeusen et al. 2013).

L’overtraining, un termine usato anche troppo alla leggera, è una sindrome vera e propria. La sintomatologia (così come le risposte ormonali e fisiologiche) sono spesso confuse con il NFOR pertanto una analisi corretta si riesce a fare solo retrospettivamente.

Un adeguato bilanciamento tra lo stress (dato dal carico di allenamento, dalle competizioni e dalle esigenze della vita quotidiana) e il riposo è fondamentale per gli atleti per raggiungere continuamente livelli sempre più elevati della performance sportiva (Kellmann et al. 2018). È quindi importante stabilire in modo corretto quale sia l’allenamento ottimale da proporre agli atleti per far loro raggiungere gli obiettivi stabiliti. Tuttavia, quello che spesso incide sulla capacità di recupero di un atleta non è tanto il carico “visibile ” cioè quello che l’allenatore prescrive all’atleta, quanto l’accumulo di stress “invisibile”, non dipendente dallo sport, che l’atleta si porta dietro dalla vita quotidiana. Questo stress aggiuntivo porta ad un aumento del carico interno e diminuisce la capacità di recupero.

La valutazione del carico interno si effettua tramite la “session rating of perceived exertion” (sRPE). Questa si basa sull’assegnazione di un valore di percezione dello sforzo dell’intera seduta di allenamento. Questo valore indicherà una media delle intensità percepite in quanto sarà attribuito alla seduta considerata nella sua globalità.

Ricerca recente (Marcora 2009) ci dimostra come la fatica mentale (ottenuta tramite un test affaticante al computer) diminuisca la prestazione di endurance semplicemente aumentando la percezione dello sforzo senza alterare i parametri fisiologici durante l’esercizio. Stessa cosa vale per lo stress mentale che diminuisce la capacità di recupero con conseguente aumento del carico interno (Stults-Kolehmainen 2014).

Queste sono tipiche situazioni che si possono verificare nella vita quotidiana, soprattutto negli atleti master che si devono destreggiare fra lavoro, vita familiare ed allenamenti. Il sonno di conseguenza riveste un ruolo importante, perché la migliore forma di recupero, spesso sottovalutata. Persone fisicamente attive, rispetto alle sedentarie, hanno una qualità del sonno migliore tuttavia, in atleti che si allenano con importanti variazioni nei carichi di lavoro (elite e master) la qualità del sonno si deteriora (Knufinke et al. 2018).

Pertanto, per poter dormire bene nonostante carichi di lavoro elevati, bisognerebbe ottimizzare tutte quelle strategie per migliorare la qualità del sonno (igiene del sonno). Per questo motivo oramai si inserisce nei diari di allenamento, dai più semplici ai più sofisitcati, una domanda riguardante la percezione soggettiva della qualità del sonno. Il rischio altrimenti è che, nonostante carichi di lavoro importanti non si riesca a recuperare in maniera efficiente.

Dato che il decremento prestativo dovuto soprattutto a NFOR è più tardivo rispetto al cambiamento di altri parametri (e quindi monitorare solo la performance porterebbe ad un ritardo nell’intervento), quali sono i segnali premonitori che possono dare indicazioni all’allenatore di un overreaching funzionale borderline con il non funzionale?

Innanzitutto si è visto che il profilo dell’umore è uno dei fattori più sensibili a variazioni di carico interno. Successivamente, si possono monitorare la qualità del sonno percepita dall’atleta, la motivazione (quindi prontezza) ad allenarsi, che da recenti studi sembra fortemente correlata ad una situazione di OR funzionale.

Nel corso degli anni diversi metodi per la valutazione del carico interno nell’ottica di prevenzione del NFOR, hanno dimostrato la loro efficacia con lo sviluppo di diversi algoritmi che possano aiutare, con un feedback immediato, l’allenatore nel monitorare i prori atleti.

Maria Francesca Piacentini
Università degli studi di Roma “Foro Italico”